Giunti fino a noi, gli eredi della comunità arbëreshe dell’Alto Jonio Cosentino mantengono ancora oggi la propria cultura e le tradizioni, che nel corso del tempo sempre più si sono integrate con quelle calabresi in un amalgama tanto complesso quanto affascinante.
Fu sotto lo stemma tricaricese di Irina Castriota Scanderbeg, sposa del principe di Bisignano Sanseverino, che gli albanesi in fuga dai turchi arrivarono in Calabria. Era la seconda metà del 1400. Alcune realtà locali hanno perduto il loro passato per un’integrazione coatta con l’Italia, mentre altre, come le comunità di Plataci, di Castroregio e di Farneta (frazione di Castroregio), grazie anche al loro isolamento hanno mantenuto intatte usanze e costumi fino ai giorni nostri.
Nel cuore di una cittadina arbëreshe
Borghi come Plataci, il “paese delle fontane”, terra d’origine della famiglia di Antonio Gramsci e di Mario Brunetti, console onorario d’Albania, circondato da sorgenti di acqua purissima a 930 metri di quota, dall’arrivo della comunità albanese in Alto Jonio Cosentino hanno visto la propria conformazione urbanistica evolversi secondo i canoni arbëreshe. La caratteristica principale della struttura urbana arbëreshe è sicuramente la policentricità. A fronte di una piazza comune, chiamatashesh o rahj, vero e proprio centro del borgo, i nuclei della cittadina sono le gjitonie e il rione che le contiene. Tutte le porte delle case, chiamate shpit o shtupit, sono rivolte verso lo spiazzo della gjitonia, un nucleo centrale condiviso dalle famiglie.
Si tratta di una struttura antica, che permetteva di creare una “rete” di reciproca assistenza e condivisione, tanto comune anche nelle cittadine italiane medievali, in una sorta di “famiglia allargata” dove anche l’educazione dei bambini era condivisa. Il ballatoio, o sheshi, era il cuscinetto per proteggere la riservatezza delle famiglie, un vero e proprio confine tra pubblico e privato. Ogni rione comprendeva poi la propria chiesa, il proprio negozio di alimentari, il forno e la cantina.
La cultura e i costumi arbëreshe
I lontani discendenti del Popolo delle Aquile, gli arbëreshe d’Italia, condividono tra loro lingua, tradizione e costumi. La cultura e i costumi arbëreshe affondano le proprie radici nella storia e nella religione. Il rito greco-ortodosso, la divisione in eparchie (circoscrizioni ecclesiastiche) e il culto delle icone hanno contribuito all’unità e ad una profonda coscienza storica delle origini dell’intera comunità. Tra le montagne dell’Arberia troviamo tradizioni antiche, come il profondo rispetto per l’ospite e il ballo della vallja, dedicato all’eroe condottiero Giorgio CastriotaScanderbeg, una danza popolare dove i giovani del paese, vestiti con i costumi tradizionali, percorrono le vie del borgo eseguendo canti epici o augurali. Se ogni funzione celebrata nel rito greco-ortodosso è la rappresentazione di Cristo sulla terra, così la Pasqua (Pashkët) è il momento più importante dell’anno. I riti della Passione, morte e Risurrezione vengono celebrati durante tutta la Settimana Santa.
Molto antico e sentito in tutta la celebrazione sacrale è il rituale del “rubare l’acqua”: dopo la mezzanotte del Sabato Santo le donne si recano ad una fontana fuori dal paese, rigorosamente in silenzio. Gli uomini intorno a loro cercano di farle parlare, ma solo dopo aver raggiunto la fontana e aver preso l’acqua sarà possibile scambiarsi gli auguri con ilChristòsAnesti, Cristo è risorto. Il mattino dopo il sagrestano interpreterà il demonio cercando di impedire al sacerdote di entrare in chiesa, il quale, dopo aver bussato varie volte, entrerà intonando canti e celebrando la Domenica di Pasqua.
Il matrimonio arbëreshe
Celebrato con il massimo della solennità, il matrimonio è un momento importante per l’unione della comunità arbëreshe, e ha sempre rappresentato un punto forza di difesa, perché fa da veicolo per tramandare i principi, la mentalità e più in generale la cultura arbëreshe alle nuove generazioni. Costumi e melodie tradizionali scandiscono e colorano il rito. I canti non mancheranno mai durante tutta la cerimonia e nei preparativi – importanti tanto quanto il rito vero e proprio – come la vestizione della sposa, con il costume tipico e la keza, un copricapo di velluto o seta ricamata che le copre le trecce annodate dietro la nuca ed è distintivo dello stato coniugale. La fanciulla viene poi accompagnata dai canti delle donne, interrotti solo dagli spari di fucile che annunziano lo sposo e l’ingresso dei due fidanzati in chiesa. La festa continua in casa e durante tutta la notte, sempre con il sottofondo di canti vjershë augurali.
Sapori semplici
Se la contaminazione con l’ambiente calabrese è forte e si sente soprattutto nel campo culinario, si è mantenuto inalterato qualcosa di diverso, un difforme modo di lavorazione, l’associazione di un cibo ad un particolare contesto, e resistono comunque piatti tipici arbëreshe. La cucina albanese in taluni paesi è molto povera, ma saporita per gli aromi utilizzati nei piatti, come avviene per la dromesat, una pasta fatta con grumi di farina messi direttamente nel sugo, o le shtridelat, tagliatelle cotte con ceci e fagioli. Molto amata è la carne di maiale, insieme alle appetitose frittate, tra cui la vezepetul di cicoria, cardi selvatici, scarola e cime di capperi. Infine, grande è l’uso dei dolci nelle festività, come i kanarikuj, grossi gnocchi bagnati nel miele, le kasollemegijze, involtini ripieni di ricotta, e la nucia, un dolce a forma di fantoccio, con un uovo a raffigurare il viso.